Spesso dalla mia finestra, alla mattina, osservavo i bambini
arabi delle elementari andare a scuola camminando nella viuzza della
Gerusalemme vecchia. Senza genitori, con i fratelli più grandi, mano nella
mano. Lo zainetto in spalla, spensierati i più piccoli, responsabilizzati i più
grandi. Jeans, scarpe da tennis e maglietta color azzurro nazionale italiana.
Alcuni camminavano lentamente, altri sorridenti e veloci. Uuno, già grandino,
con il quaderno aperto ripassava la lezione, forse per il compito in classe.
Quartiere ebraico Meah Shearim. Anche qui bambini, da soli
mano nella mano, vestiti uguali, biondi, rossicci, con i boccoli alle orecchie
ed il copricapo ebreo sulla testa rasata. Belli.
E poi donne, perlopiù giovani, incinta con dei piccolini al
seguito.
Una cosa mi ha colpito, i loro occhi, il loro sguardo
triste.
I bambini sono uguali in tutto il mondo: corrono, sorridono,
giocano urlano, piangono.
Le lacrime ed il sorriso di un piccolo di Milano sono
identiche a quelle dell’arabo palestinese e a quelle dell’ebreo ortodosso del
Meah Shearim.
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