lunedì 31 agosto 2020

ASINI/ Il film “parabola” sul riscatto che passa dallo sport

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 In questo periodo estivo vi proporrò dei film un po’ datati che parlano di sport in una maniera particolare. Quest’anno dovevano svolgersi le Olimpiadi e gli Europei di calcio, ma abbiamo visto solo un finale di campionato chiaramente già segnato e ora un mini-torneo per Europa League e Champions League. Dico subito che non mi occuperò di calcio, ma di sport vari e le pellicole di cui scriverò avranno dei risvolti non esclusivamente agonistici, anzi.

Partiamo con Asini (1999), film italiano dove alla base c’è il rugby. Spero sia uno sport che vi piaccia, perché al contrario del calcio nostrano è giocato da gente che non se la tira, sgobba da matti e becca zero euri. Tanto che il professionismo in Italia non esiste e i nostri più affermati giocatori sono dovuti emigrare all’estero. La patria del rugby è l’Inghilterra, ma per il Galles è vita, così come per la Nuova Zelanda. Io tifo chiaramente per gli All Blacks, i tutti neri, che solo a vederli nel loro grido e danza di guerra, la Haka, spaventano gli avversari. L’Italia, ahimè, nel Sei Nazioni, vince sempre… il cucchiaio di legno (arriva ultima).

Bene ora passiamo al film.

Achtung iniziale. Le prime scene del film scorrono veloci, ma state attenti. La maestra mette un cappello d’asino a un bimbo e gli ordina ad andare nelle classi vicine a farsi vedere così conciato. Uno sfigato quarantenne, Italo, interpretato da Claudio Bisio, panchinaro nella squadra dell’A.S. Rugby Milano, si trova a fare il punto sulla sua vita: vive alla giornata, non ha un lavoro, abita con la madre (Isa Barzizza) e la zia, ha una fidanzata dog-sitter (Maria Amelia Monti) che cerca di metterlo inutilmente alle strette. Gli viene proposto l’ennesimo lavoro, insegnante di educazione fisica in un collegio sulle colline emiliane. Quando vi arriva scopre che è un convento con due fratoni un po’ rimba (uno è il comico Vito) e Padre Anselmo che non si vede mai, una bella ragazza (Giovanna Mezzogiorno) che si occupa della cucina e una quindicina di ragazzi tutti particolari: orfani, con problemi psicologici e relazionali. In un podere vicino vive Bastiano (Ivano Marescotti) che parla solo in dialetto emiliano, ha una bottega con bar, barbiere, vestiti usati e spara ai preti con la doppietta.

Aggiungiamoci un giovane Fabio De Luigi che interpreta lo strampalato factotum del convento, anche lui problematico. Guida il furgoncino solo con la prima marcia e ha un modo tutto suo di parlare (veloce e incomprensibile), vestito con pantaloni ascellari e colletto della camicia abbottonato.

Italo cerca di entrare in rapporto con i ragazzi, ma la situazione è strampalata. Appare il Cardinale (Arnoldo Foà) che cerca di acquistare il podere di Bastiano per creare una mega struttura tipo “città della carità”. Il convento accoglie nella sua tenuta un branco di asinelli ormai inutili: un parallelo esplicito, con i ragazzi disagiati che lì vivono.

Italo, alla sua maniera, si gioca con gli sbarbati che invece lo prendono in giro a manetta. Getta la spugna e torna a Milano e trova la fidanzata che gli dice di essere gravida. Ritorna allora al convento e insegna ai ragazzi a giocare a rugby. Scopre anche che l’irascibile Bastiano è un appassionato della palla ovale.

Bene, Bastiano vende il podere al Cardinale e nel progetto fa costruire un campo da rugby, il porporato paga le divise per i ragazzi e c’è una partita d’inaugurazione con l’A.S. Rugby Milano. È un po’ una parabola: gli ultimi possono rifiorire se voluti bene e se si sbattono.

E gli asinelli? Ho chiesto a Giorgio Terruzzi da dove gli è venuta l’idea di questo soggetto. Un rugbista inglese andava al pub con il suo asinello e poi dava da bere alcolici anche all’animale. In Inghilterra un medico danaroso aveva creato un ricovero per gli asinelli e i bardotti ormai inutili. Ve ne sono ora anche in Italia. Perché il rugby? È uno sport che non porta schei, è passione, allenamento e fatica, un po’ come la vita. Unitevi gli asinelli e i ragazzi disagiati e il cerchio si chiude.

Terruzzi non è solo un bravo giornalista sportivo, nato alla corte del grande Beppe Viola, ex Mediaset, ora al Corsera, esperto di F1 dall’adolescenza, scrittore, autore di Abatantuono, ecc., non lo voglio incensare, ma con dei suoi amici è impegnato nel carcere minorile Beccaria di Milano, dove insegna rugby ai banditelli. Mica paglia… Una possibilità di riscatto e di educazione che passa attraverso uno sport che non regala nulla, fatto di fatica e allenamento nella palta che tempra e che può redimere. E questa è la vita.

Achtung finale. Alla fine del film i ragazzi sono seduti sul prato con Italo e appare finalmente Padre Anselmo che ricorda al nostro esilarante pelato che molti anni prima era entrato nella sua classe un bimbo in lacrime, Italo appunto, con un cappello d’asino e nel flashback si vede che il giovane frate ha anch’egli sulla testa un grosso cappello con le orecchie d’asino. E qui finisce il film.

Meditate gente, meditate.

martedì 4 agosto 2020

LOVING VINCENT/ Il “giallo” per raccontare la vita di Van Gogh coi quadri



L’ultimo film di cui ho scritto era 
Sogni di Akira Kurosawa e mi ero soffermato sull’episodio Corvi con Martin Scorsese nelle vesti di Van Gogh e un’immersione nei quadri del pittore dovuti alla maestria e alla tecnologia utilizzata da George Lucas con i suoi effetti speciali (siamo nel 1990) considerati allora straordinari. Nel 2017 è uscito per soli tre giorni nelle sale italiane Loving Vincent e ora lo trovate solo in blu-ray. Lo consiglio sia per chi è appassionato di tecnica cinematografica che di pittura. Il protagonista è sempre Vincent Van Gogh e viene raccontata la sua vita, in particolare l’ultimo periodo con una trama quasi noir. Il tutto realizzato con una tecnica mista fatta di riprese, effetti speciali e pittura.

Siamo nel 1891 e il postino Joseph affida una lettera al figlio Armand da consegnare a Theo van Gogh, fratello di Vincent, suo amico, suicidatosi un anno prima. Il postino non è convinto del suicidio in quanto aveva ricevuto una lettera in cui il pittore si definiva tranquillo e sereno. Armand inizia il suo viaggio che diventerà ben presto un’investigazione. Incontrerà il commerciante di colori Tanguy che gli racconterà l’inizio della vita artistica di Van Gogh, la sua malattia psichica, il suo soggiorno finale a Auvers sur Oise vicino al dott. Gachet che lo aveva in cura e ammirava la sua arte.

Armand si reca al paese dove Van Gogh ha vissuto e si è suicidato, conosce la figlia dei locandieri dove aveva preso una stanza. Si reca alla villa del dottore dove incontra prima la figlia e poi il medico. Armand conosce altre persone del luogo e si convince per la dinamica dei fatti che non si sia trattato di un suicidio. Il dott. Gachet afferma invece che il pittore si è suicidato dopo una litigata con lui in cui gli ha rivelato che il fratello Theo era in precarie condizioni di salute ed economiche dovute ai continui aiuti dati a Vincent.

Theo van Gogh morì poco dopo il fratello. Armand tramite il dottore riesce a far arrivare la lettera del padre alla moglie di Theo. È un film biografico, un po’ romanzato, ma che cerca di fare luce sulla vita del pittore che iniziò a dipingere all’età di ventotto anni e che in soli otto sfornò 900 quadri.

Il soggetto è ben costruito, con Armand investigatore che attraverso le persone che hanno conosciuto Van Gogh raccontano a lui e a noi la vita del pittore.

Passiamo alla parte tecnica. Il film è realizzato in animazione, ma non in computer grafica 3D come i cartoni animati delle ultime generazioni, i personaggi sono stati ripresi con lo sfondo verde del chroma key, banale direte voi, ma qui parte il resto: sono stati ridisegnati su tele tutti i dipinti di Van Gogh, in pratica ogni singolo fotogramma era un disegno del pittore adattato alle proporzioni, alla notte, al giorno, alle stagioni e movimenti in cui i protagonisti erano immersi con la tecnica del Painting Animation Work Station. Un’opera immane con 130 pittori al lavoro che hanno realizzato 65.000 frames. Andate sul sito ufficiale del film dove troverete il making of, le foto e le interviste della preparazione del film

lunedì 3 agosto 2020

SOGNI/ Kurosawa, il cinema, l’arte e gli incroci straordinari nell’episodio “Corvi”



Nel 1990 uscì nelle sale 
Sogni di Akira Kurosawa. Il Maestro aveva allora ottanta anni, ma girò altri due film, Rapsodia di Agosto (1991) e Madadayo – il Compleanno (1993) e si spense nel 1998. Aveva il “vizio” di scriverli, girarli e anche montarli. Non vinse mai l’Oscar, ma gli fu data una statuetta Onoraria nel 1990. Il che la dice tutta su Hollywood. Vinse a Venezia il Leone d’Oro nel 1951 con Rashomon e nel 1954 il Leone d’Argento con i Sette Samurai. A Cannes fu impalmato d’oro nel 1980 con Kagemusha – L’Ombra del Guerriero. Ma come non ricordare Ran (1985) e il bellissimo e umano Dersu Uzalua (1985) osannato da noi in Italia con il David di Donatello? I Sette Samurai è rimasto nella storia del cinema, tanto che molte pellicole hanno preso spunto da essa.

Ma torniamo a Sogni. Partiamo dal fatto che il produttore è Steven Spielberg, Martin Scorsese interpreta Van Gogh in uno degli episodi e George Lucas mette la sua mano per gli effetti speciali. Tre personaggi mica da poco che hanno voluto onorare il Maestro con la loro partecipazione. Ci aggiungiamo anche Chopin, ma di lui parleremo in coda.

I film di Kurosawa non sono certo di intrattenimento oppure spaghetti kung-fu, hanno sempre l’impronta del regista, che li ha pensati, scritti e realizzati partendo dal suo io, dalla sua spiritualità, dalla cultura e storia giapponese. Mai finti, pieni di suggestioni ma che lasciano pensare.

Sogni non fu accettato dalla critica in maniera benevola: un vecchio di ottant’anni che racconta in prima persona la sua vita a episodi, attraverso appunto dei sogni che gli ricordano la propria esistenza, scanditi dalle stagioni e dai colori, con elementi di drammaticità ma anche di positività. Poteva essere il suo testamento, ma per fortuna ha diretto, come dicevo, altri due film prima di volare in cielo. Se i tre americanos, Lucas/Spielberg/Scorsese, si sono imbarcati nell’avventura ci sarà stato un motivo profondo e non venale, sapendo in partenza che di schei con questo film non ne avrebbero fatti.

Gli episodi sono otto, ripercorrono la sua vita da bambino e adulto tra favole, racconti fantastici, drammi, sempre partendo dall’appartenenza alla spiritualità e cultura della sua terra. Mi soffermo su uno in particolare, Corvi, dedicato a Vincent van Gogh. Un uomo, un giovane artista, sarebbe Kurosawa, sta contemplando in una sala di museo i più famosi quadri del maestro e a un certo punto si ritrova magicamente catapultato nella realtà di uno di essi, dove delle massaie in riva al fiume stanno lavando i panni. Chiede loro dove può trovare il pittore, le donne dicono che è passato da poco e di stare attento perché è appena uscito dal manicomio.

L’uomo cammina in un paesaggio di campagna dai bellissimi colori finché non trova il pittore in un campo di fieno tagliato e di covoni mentre in piedi e di spalle sta disegnando degli schizzi. Ha un cappellaccio grande di paglia, un fazzolettone dalla testa al mento che gli copre le orecchie, quando si gira scopriamo che Vincent van Gogh è interpretato da Martin Scorsese. Gli dice che la bellezza della natura lo trascende fino a mettergli davanti il quadro finito e poi… il vuoto assoluto. Guarda, osserva, disegna e afferma: Io lavoro da schiavo e mi guido come una locomotiva. Il sole mi costringe a dipingere, non posso perdere tempo a parlare con lei.

Qui entra in maniera vigorosa l’immagine di una locomotiva a vapore che sferraglia sostenuta dall’impetuosa musica di sottofondo.

Raccatta le sue cose e se ne va. Il nostro si inebetisce dal sole, si gira e non vede più van Gogh. Cammina e si ritrova dentro i quadri del pittore. E qui è entrato in campo George Lucas con la sua maestria negli effetti speciali, che visti oggi un po’ fanno sorridere, ma allora erano all’avanguardia.

Vari minuti di escursione nei vari e bellissimi quadri, finché lo rivediamo nella campagna reale dove scorge in lontananza il pittore nel viottolo di un campo di grano e mentre scompare all’orizzonte si alza in cielo uno stormo di corvi. Dall’immagine reale ci ritroviamo nel museo davanti al quadro Campo di grano con voli di corvi, l’inquadratura si allarga e il nostro pittore si toglie in segno di riverenza il suo cappellino da pescatore.

Questo episodio dura dieci minuti, con veramente poche battute parlate. Di sottofondo la musica di Chopin che esalta Kurosawa alla ricerca di van Gogh. Una musica azzeccatissima, il Preludio 28, op 15, conosciuta ai più come La Goccia che è impeto e forza di ricerca costante nel cammino del giovane artista.

Il flashback della locomotiva è un omaggio ai creatori del cinema, i fratelli Lumiere. Anche questa una genialata. Sicuramente l’episodio Corvi è un saluto ossequioso e di affezione a van Gogh al suo stare alla natura e alla realtà, ma è anche un omaggio alla settima arte, il cinema, come trasposizione della bellezza, della storia, della natura come Kurosawa ha fatto con le sue pellicole.

Un Maestro del cinema, tre geni diversi cinematografici, uno dei più grandi pittori di sempre ed uno dei compositori per pianoforte più straordinari.

Sogni – episodio Corvi. Buona visione

venerdì 26 giugno 2020

Gambit – Una truffa a regola d’arte/ Sorpresa e risate nel film scritto dai Coen Bros




Oggi vi propongo sempre un film con a tema la pittura, una pellicola non impegnata, un divertissement. In questo film l’oggetto del contendere è un quadro di Monet, i Covoni di fieno al tramonto. Monet tra covoni doppi e singoli dipinse venticinque tele, in varie stagioni e nelle varie ore del giorno con una luce diversa. Una di queste tele con due covoni è stata battuta all’asta nel 2019 per quasi 111 milioni di euro. Nei giorni precedenti all’asta di Sotheby’s la previsione era che si sarebbero raggiunti i 55 milioni, ma invece si è arrivati a un record inimmaginabile e a un compratore sconosciuto. Nel film che vi propongo, Gambit – Una truffa a regola d’arte (2012), il quadro in oggetto viene valutato 20 milioni di dollari, una bazzecola rispetto agli euri spesi nella realtà nel 2019.
Il film è un remake di Gambit – Grande furto al Semiramis del 1966 interpretato da Shirley MacLaine e Michael Caine, mica paglia, ma il soggetto della pellicola odierna è stato scritto dai geniali fratelli Ethan e Joel Coen (li adoro) che hanno attualizzato la storia ribaltandola completamente. Se nel primo film l’oggetto era una statua con una finta e bella cinese, qui si è passati ai quadri di Monet. Aggiungeteci come protagonisti Colin Firth, Cameron Diaz, Stanley Tucci e il cattivo di Die Hard e Robin Hood, Alan Rickman, e portiamo a casa un buon prodotto.
Per convincervi di questo dovreste provare ad ascoltare solo l’audio del film per capire come è stato mirabilmente scritto dai Coen Bros.
Il film è veramente divertente e non scade mai di tono. L’esperto d’arte Harry Dean (C. Firth) lavora a Londra per l’editore plurimilionario Lionel Shabandar (A. Rickman). Cattivone come negli altri film, tratta il povero Harry come uno straccio. Questi ama l’arte in maniera totale, si è comprato un piccolo dipinto, il cui acquisto lo ha lasciato al verde. Ha l’aplomb inglese sia nel carattere che nelle espressioni. Completamente diversa è l’interpretazione di Cameron Diaz, cowgirl texana, sveglia e disinibita. Che c’azzeccano?
Una semplice truffa, Harry escogita un semplice piano, scova in Texas PJ Puznowski (C. Diaz), una nipote del soldato americano che recuperò nel caveau dell’ufficiale SS tedesco Hermann Goring il quadro di Monet dei Covoni al tramonto, mentre l’amico soprannominato il Maggiore, ne dipinge una copia esatta e PJ la spaccia come vera. Tutto sotto il controllo di Harry. Lionel abbocca, ha in villa i Covoni dipinti con la luce del mattino e acquistati a un’asta battendo il suo nemico giapponese, magnate dell’editoria e tv asiatica.
Lionel è dispotico e sopra le righe, Harry dimostra senza palle e invece PJ si rivela furba anche se sgraziata. Il cattivone organizza un festone in villa dove un esperto tedesco, interpretato da Stanley Tucci, dovrà confermare l’autenticità del Monet, affiancato ai Covoni del mattino. Questo avviene, ma è Harry a svelare che è invece una riproduzione. Perché? E qui sta il bello della truffa e del finale del film, che non anticipo. Un bel colpo di scena.
Un film divertente e ironico, il cui soggetto veste alla perfezione i vari personaggi del film. Esilaranti le scenette di Harry in mutande, ma in giacca e cravatta nelle varie camere del prestigioso Hotel Savoy di Londra, così come l’antifurto nella sala della villa dove vi è il Monet di Lionel L’antifurto è un leone vero e proprio che viene domato dalla cowgirl.

martedì 23 giugno 2020

IL TORMENTO E L’ESTASI/ Il film sull’arte che diventa offerta e bellezza



Sono spesso a Roma per lavoro in zona Vaticano e quando son libero vado in San Pietro. Da buon portoghese salto le file delle comitive dei giap e appena entrato in Basilica mi soffermo sempre davanti alla cappella della Pietà. Devo dire che il mio cuore di pietra quasi sempre si commuove per il significato e per la bellezza che l’opera esprime: il volto di Maria e di Gesù; i dettagli delle mani, delle vene e delle pieghe delle vesti.
Quando vidi invece per la prima volta nella chiesa di San Pietro in Vincoli la statua del Mosè ebbi un sussulto di timore: maestosa, grande, espressione di forza, con i due cornini sulla testa di cui non mi capacitavo.
Parliamo dell’autore di queste opere, Michelangelo Buonarroti, questa volta non come scultore ma come pittore. Il film che vi propongo oggi è Il tormento e l’estasi (1965) diretto da Carol Reed in cui viene rappresentata la realizzazione degli affreschi della volta della Cappella Sistina. Il film è una produzione Usa/Ita, la sceneggiatura è tratta dal romanzo di Irving Stone ed è quasi tutta vera. Il nucleo centrale della pellicola è rappresentato dal rapporto di Michelangelo con Papa Giulio II, dai loro caratteri, certezze, titubanze e dalla loro personale fede in Dio.
Charlton Heston, dopo aver interpretato I dieci comandamenti (1956) e aver vinto un Oscar con Ben Hur (1959) si raffronta con Rex Harrison, anch’egli vincitore della statuetta con My Fair Lady (1964). Il film è un kolossal: il budget, le scenografie, la fotografia, gli attori, la grandezza delle risorse evidenziano l’intento di un film dalle intenzioni grandiose, e lo è stato nonostante il parere negativo dei critici sempre incentrati sull’estetica e mai sul significato. La Cappella Sistina è stata ricostruita in studio a Cinecittà poiché il Vaticano, saggiamente, non autorizzò le riprese in un luogo sacro.
Michelangelo, già affermato scultore, giovanissimo aveva scolpito il capolavoro della Pietà e stava lavorando alle statue per la tomba del Papa. Questi decise in maniera unilaterale di affidare gli affreschi della Sistina al Buonarroti. Il nostro si rifiutò, si sentiva di esser solo uno scultore, ma dovette accettare. Iniziò il lavoro, lo interruppe, distrusse gli affreschi e scappò dalla capitale. Ebbe poi una visione, ritornò a Roma e iniziò il grande lavoro che termino in quattro anni. Questa la sintesi del film, in cui però s’intrecciano le due eccezionali figure, spesso in contrapposizione, ben evidenziate nella pellicola, sia dalle maestose interpretazioni dei due attori, ma anche dalla sceneggiatura e dai dialoghi.
Papa Giulio II della Rovere era un uomo deciso, forte di carattere, lasciato all’iconografia storica come più devoto alla guerra che all’incenso, combatté duramente i francesi, ma era cosciente che in quel momento storico la Chiesa dovesse essere una potenza militare, non solo per fini temporali, ma perché il Suo messaggio fosse rispettato e potesse arrivare a tutti. Lungimirante e intuitivo affidò gli affreschi a Michelangelo. Si scontrò con lo scultore, lo rimproverò, lo minacciò, ma il 31 maggio 1512, dopo quattro anni di lavori ammirò lo splendore dell’opera finita e vi celebrò la preghiera dei Vespri.
Alla riluttanza iniziale del Buonarroti risponde: – Non è un impegno è una prova di fede.
A opera conclusa afferma: – Io volevo un affresco, lui mi ha dato un Miracolo.
Michelangelo pare fosse di carattere molto irascibile, presuntuoso, non avvezzo all’obbedienza, irrispettoso, difficile perciò lavorare con lui. Senza peli sulla lingua quando il Papa gli chiedeva: – Quando lo porterai a fine? lui rispondeva a tono: Quando avrò finito!
Due personalità carismatiche, Giulio II con il chiaro compito missionario della Chiesa, Michelangelo con l’affermazione del proprio lavoro, non come estetica fine a se stessa, ma come significato espressivo dell’opera che realizzava.
Il film mette perciò in evidenza la vocazione a cui entrambi i personaggi furono chiamati dal buon Dio. Il Papa avrebbe voluto essere un artista, mentre il Buonarroti avrebbe voluto solo scolpire. Ma capì che realizzare la Genesi oltre che essere una prova di fede era la possibilità di mettere a servizio i propri doni: – Dio mi ha dato queste mani per creare.
E la vita lo portò, lui grande scultore, a dipingere due capolavori, la Genesi e il Giudizio Universale.
Quello che accade nella nostra vita non lo decidiamo noi, dobbiamo andarci dietro e il Papa e l’artista, soprattutto questi, a malincuore inizialmente, vi aderirono.
Michelangelo capì che doveva realizzare il lavoro da solo, fu aiutato solo da garzoni, si sfinì psicologicamente e soprattutto fisicamente ammalandosi, ma aveva la consapevolezza che quello era il suo personale compito in un’immedesimazione totale. Affrescò 430 corpi sui 1.010 metri della superficie della volta. Corpi ignudi, muscolari, forti, espressione dell’origine dell’uomo creato da Dio senza peccato e perciò non contaminati e quindi senza vestiti. I cardinaloni restarono allibiti guardando i lavori, ma Michelangelo tenne testa loro rabbiosamente, per lui tutto era nato da Dio, e dal sacrificio di Cristo sulla croce. Li zittì e Giulio II acutamente comprese che quel duro lavoro era il mezzo con cui Michelangelo metteva tutto se stesso in rapporto con Dio, era perciò una abnegazione, un sacrificio e un’offerta spirituale e fisica nel donarsi al Padre. Da qui il titolo del film, il Tormento (Agony nell’originale), una sua vera e propria via Crucis interiore. L’Estasi è la bellezza di Dio riverberata nel creato. Tutto questo è ben espresso nel film.
Ancora una cosetta, tra gli attori abbiamo un già affermato Alberto Lupo, un giovanissimo e bellissimo Tomas Milian nei panni di Raffaello Sanzio e un garzone sbarbato interpretato da Andrea Giordana.
Il film lo trovate solamente in dvd e su qualche sito streaming privato.

domenica 24 maggio 2020

UNA STORIA SENZA NOME/ Un film nel film sul giallo della Natività di Caravaggio









Raccontare di film con a tema l’arte, in questo caso la pittura, non è affatto facile. Per diverse settimane vi proporrò dei film che parlano di questo, alcuni saranno film impegnati, altri un po' meno.
Partiamo da Una Storia Senza Nome (2018) di Roberto Andò, un giallo romanzato che prende spunto da un fatto, ahimè, vero.
Nella notte tra il 17 e il 18 ottobre del 1969, a Palermo, nel quartiere detto della Kalsa, nell’Oratorio di San Lorenzo venne rubata la tela de la Natività con i Santi Lorenzo e Francesco. La serratura non era sicuramente a prova di ladri, non vi era nessun allarme sulla scalcagnata porticina, ma neppure sul quadro. Come dire: portatemi via! Ma non era un dipinto qualsiasi, era stato realizzato Michelangelo Merisi, il Caravaggio e dopo il restauro del 1951 lasciato nella chiesetta per essere ammirato e…facilmente rubato. La curia palermitana non aveva chiaramente avuto un occhio di riguardo nella conservazione e protezione. Sta di fatto che in una notte piovosa, alcuni ladri, tagliarono la tela dalla cornice con una lametta, la arrotolarono e fuggirono su un’Ape car. Sembra un furto dei soliti ignoti un po' sfigati. E qui parte il mistero che da più di cinquant’anni avvolge la Natività del grande pittore.
Pare che i quattro ladri sfigati non sapessero del valore del quadro e che, sull’onda della scoperta del furto, la mafia se lo fece consegnare dai ladruncoli. Nel corso di queste cinque decadi non si è trovato nulla, se non le deposizioni di svariati pentiti che affermavano tutto e il contrario di tutto: che venne bruciato da Marino Mannoia; fu rovinato, fatto a pezzi e mangiato dai maiali; ospitato in casa di tano Badalamenti e venduto a un trafficante svizzero. Ho sintetizzato, di mezzo ci sono, brusca e company e non ultimo un tale Gaetano grado che affermò alla commissione antimafia di Rosy Bindi che il quadro fu portato in Svizzera, diviso in sezioni e queste vendute in giro per il mondo. Beneficiaria, chiaramente, la mafia. Il noto Vittorio Sgarbi, che ne sa sempre una più del diavolo, in un articolo del 2019 afferma che i risultati della commissione della Bindi sono farlocchi e che il quadro è in Svizzera.
Parliamo ora del film, Una Storia Senza Nome, gran bel film secondo me, ben realizzato con una sceneggiatura che prende dal vero quel poco che c’è, miscelandolo con le confessioni dei pentiti un po' di romanzo noir, ma lasciando una domanda nell’aria, anzi sullo schermo, senza risposta.
Roberto Andò, il regista, ha sapientemente scritto la sceneggiatura e si è inventato un film nel film. Non nuova l’idea, ma trasportata direi molto bene.
Abbiamo uno sceneggiatore che pensa solo alle donne, Alessandro Gassmann e non ha più verve nello scrivere. Le sceneggiature degli ultimi suoi film, tra l’altro di successo, le ha scritte Micaela Ramazzotti, segretaria di produzione della società cinematografica per cui Gassmann lavora. Nessuno è al corrente, è in gergo un negro, cioè colui che scrive per altri. Figura conclamata nel cinema, nell’editoria, in televisione. In politica lo si definisce invece con termine inglese che parrebbe più nobile: ghost writer.
Micaela ha un patto diciamo d’amore con il cazzaro Gassman, scrive sì in cambio di soldi, ma ne è anche innamorata e lui da latin lover non disdegna.
La bella segretaria viene agganciata da un anziano uomo che si spaccia per investigatore. Le racconta la storia del quadro di Caravaggio, della mafia e compagnia bella. Micaela scrive, Alessandro consegna la sceneggiatura che viene accolta alla grande, arrivano i cinesi che vogliono coprodurre il film con un regista internazionale. E qui iniziano i guai. Nella casa di produzione, il socio di maggioranza è un colletto bianco della mafia che ne reinveste i denari. Quando Cosa Nostra legge la sceneggiatura capisce che lo script è stato scritto da qualcuno che sa la verità.
Gassman viene rapito e massacrato di botte, ma continua ad affermare che è frutto della sua fantasia. Morale si farà sei mesi di coma in ospedale. Micaela attratta dall’anziano detective lo aiuta, continuando a scrivere man mano le scene che mancano. Qui il film diventa sempre più thriller con i mafiosi alla ricerca del Mister X che scrive la storia. Si arriva addirittura al Presidente del Consiglio e ad alcuni ministri a cui è proposto il dipinto in cambio di soldi e di abolizione della detenzione al 41 bis dei mafiosi in carcere. Questo è quanto ha affermato tra l’altro il pentito Giovanni Brusca.  Come dicevo c’è un buon amalgama tra la storia vera, quella dei pentiti e quella romanzata di Andò.  Miscelata con una ricostruzione con flash back trasportata nel film che viene girato dalla casa di produzione. Un film nel film che racconta una storia. Un paio di colpi di scena ben assestati, uno fanta-politico ed uno personale di Micaela sono le ciliege sulla torta. 
Godibile, buon divertimento

giovedì 7 maggio 2020

NON SPOSATE LE MIE FIGLIE 2/ Il film “scorretto” dove risalta Clavier






Un paio di anni fa vi avevo proposto Non sposate le mie figlie, ed ora vi propongo il sequel uscito in Italia nel marzo del 2019. Il primo era veramente un film gustoso, ironico e politicamente scorretto, questo secondo è un po' stantio e meno brillante. Vale comunque la pena di vederlo, se l’avessero girato in Italia, sarebbe stato accusato di fascio/leghismo e sovranismo mentre in Francia al massimo potrebbero accusarlo di gollismo.
Il protagonista è sempre Christian Clavier, capofamiglia andato da poco in pensione, che si trova alle prese con le quattro figlie e relativi generi tutti desiderosi di espatriare.
L’avvocato musulmano ha solo clienti islamici e vuol andare in Algeria, l’ebreo un cazzaro/fanfarone in Israele, il cinese bancario a Shangai e l’ivoriano a Bollywood per sfondare come attore. Sono tutti scontenti di come si sentono trattati in Francia pur essendovi nati, non si sentono capiti e tenuti in considerazione. Si considerano degli immigrati. Espatriare diventa il loro miraggio.
Mentre i quattro si lamentano continuamente, il nostro scudiero (guardatelo ne L’Ultimo Guerriero) è costretto dalla moglie ad accogliere un afgano come giardiniere, che lui tratta in maniera razzista.
Il vecio Clavier e moglie non son d’accordo con i quattro che  e spiega loro che il mondo è tutto uguale: i sindacati e i gilet gialli sono ovunque, e rinfaccia loro di aver votato Macron. E qui esce il suo nazionalismo e amor di patria, organizza solo con i generi un week end/tour nella valle della Loira decantando i castelli, i vini, la nazione francese e combinando incontri “fortuiti” con vari personaggi per dare delle occasioni e dei motivi ai poveri tapini di restare in Francia. Chiaramente è tutto combinato e Clavier tira fuori molti euri per lo scopo. Ciò che muove lui e la moglie è l’amore per le figlie e per non aver lo strazio di vederle andare in luoghi lontani. Ma il suo gollismo, concretezza per arrivare all’obiettivo, coglie nel segno.
Tutto è raccontato in maniera politicamente scorretta, con battute semi razziste da parte di Clavier. Aggiungiamoci la figura del parroco, già visto nel primo film, che questa volta chiede la questua con l’utilizzo della carta di credito (minimo 10 euro) e che di notte si spara le serie tv di Star Trek e Gomorra (questo nel doppiaggio italiano).
Poi c’è il consuocero ivoriano che arriva a Parigi per il matrimonio della figlia, ma non sa che questa, essendo lesbica, si sposerà con una donna. E lì il cattolico negrone si sente male. Bordata chiaramente contro la morale cattolica, che con il sacerdote suddetto è completamente ridicolizzata. Questo è lo scivolone del film, dopo i quattro matrimoni multirazziali, l’unica idea nuova è stata questa. Un po' debole ed anch’essa telefonata. Forse la pecca del film.
Sicuramente non è brillante come il film del 2014, una genialata quello, ma, comunque, i dialoghi sono scritti bene, da teatro di rivista, e il ns. Clavier è veramente bravo. I siparietti con il padre ivoriano sono tutti da ridere.
Come dicevo inizialmente se il film in questione fosse stato girato nel 2018 in Italia, miiiiiiii, avrebbe causato una crisi di governo. Forse solo Zalone sarebbe riuscito ad accomodare tutto (vedi le sue gags sugli omosessuali).
Tutto è bene quel che finisce bene, le quattro famiglie restano in Francia, e guarda caso al capofamiglia viene regalato dai quattro pellegrini un berretto, un kepì originale di Charles de Gaulle. W la France.
N.B. Alle medie ho studiato francese…..                                                                       Mìììììì, non ci posso credere