venerdì 11 settembre 2015

FABRIZIO CORONA/ Il dolore e la "metamorfosi" che ci fa scoprire più uomini


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C'è una sorta di elettricità quasi plastica e pruriginosa che si respira la sera dell'8 settembre 2015, esattamente davanti al cinema Odeon di Milano. Una massa fremente e vociante di popolo si accalca in malo modo all'ingresso della storica sala cinematografica meneghina: fotografi, giornalisti e cameraman con le ottiche schierate come mitra attendono al varco l'arrivo di Fabrizio Corona, Barabba delle folle e Gesù dei benpensanti, che dal 18 giugno scorso si è visto commutare la reclusione in affidamento in prova ai servizi sociali presso la comunità Exodus di don Mazzi, a Lonate Pozzolo. All'Oden di via Santa Radegonda è infatti in programma la prima del documentario dall'eloquente titolo “Metamorfosi”, opera prodotta dall'omonima associazione e scritta e diretta da Jacopo Giacomini e Roberto Gentile e realizzata con la collaborazione dello stesso Fabrizio. 
Ecco spiegato l'interesse della stampa e dei curiosi asserragliati: sono tutti lì per quell'uomo, “fan” e pennivendoli appollaiati come avvoltoi pronti a avere in pasto almeno un brandello di colui che altro non è che un “clic” assicurato e succulento per i quotidiani online, in grado di generare entropiche discussioni di dimensioni bibliche tra i lettori per una sarcastica legge del contrappasso della gran macchina del gossip che l'indomani, a torto, porrà unicamente l'attenzione sul caos che ha travolto Corona al suo arrivo, una buona mezz'ora dopo l'inizio della proiezione del docu-film e dopo che tutti gli ospiti si erano già accomodati compostamente all'interno.
La maggior parte di quelli che erano in lista per assistere alla prèmiere altri non erano che amici di Fabri – come amano chiamarlo - conoscenti, ex collaboratori e dipendenti che, uniti a qualche volto più o meno noto del mondo dello spettacolo, con un ordine quai monastico e un silenzio rispettoso, hanno preso posto sulle poltrone di pesante velluto rosso, senza schiamazzi. Fino all'entrata di Fabrizio in sala, il silenzio che ha accompagnato, prima la presentazione di Giacomini – che ha illustrato a grandi linee il modo in cui l'opera è stata composta a partire dal 2011, e poi la proiezione stessa – era di un'intensità quasi vibrante. Un silenzio carico d'attesa che non faceva altro che rendere tangibile il sentimento di amicizia che gran parte dei presenti provava per il Corona-uomo, non per il “personaggio”. Persone che probabilmente, in questi quasi tre anni di assenza dell'amico, ne hanno sentito la mancanza, e che, come sublime gesto d'affetto, lo hanno aspettato in tacita e vigile attesa, mentre, con un ritmo spesso vivace, a volte più lento, sul telone bianco scorrevano le immagini di questa opera “prima” di Giacomini e Gentile.
L'input della realizzazione del documentario, come lo stesso Jacopo spiega nell'introduzione alla visione, è la scoperta che, nonostante i suoi successi imprenditoriali e personali, lui, come Caligola nell'omonima pièce teatrale di Albert Camus – oserei dire – si  accorge che “gli uomini muoiono e non sono felici”. Giunge quindi il tempo per Jacopo di una metamorfosi, intesa come un percorso di crescita interiore, come la stessa etimologia del termine-chiave suggerisce. In questa esperienza di meta-forma, Jacopo decide di coinvolgere anche l'amico Corona, reduce dai guai giudiziari dell'arcinota vicenda di Vallettopoli. Ed è a questo punto del film che si incardina come una spina quello che è probabilmente il vero tema della pellicola: il dolore. Che non è solo quello di aver trascorso mesi e mesi in carcere: il tema della giustizia, dei reati, delle “coronate” non viene nemmeno sfiorato. Non ci sono buoni o cattivi, vittime o carnefici, non c'è il Corona “autentico” e il Corona “personaggio”. Appare, nel suo sordo e pervasivo dolore il Fabrizio-uomo che, con la lucidità di uno struggimento che almeno una volta nella vita abbiamo provato tutti noi mortali, che con viso stanco e tirato, quasi con strazio, confessa: “Io non sono sereno, non lo sono mai stato” e, con una sorta di paradossale scoramento continua: “Ma se fossi sereno non sarei me stesso”. Ed eccolo qui il nocciolo duro della questione, la dicotomia che strappa in due l'anima di chi vorrebbe essere in pace con sé e con il mondo, condurre una vita normale e ordinata ma che in fondo, e da solo, non ce la fa e forse non lo vuole davvvero.
Questo mondo, così come è fatto, non è sopportabile. Ho dunque bisogno della luna, o della felicità, o dell’immortalità, di qualcosa che sia forse insensato, ma che non sia di questo mondo”, si sfoga ancora il Caligola di Camus con il servo Elicone e Fabrizio, in tutte le sfaccettature della sua complessa personalità, dallo schermo sembra dirci la stessa cosa non già perché, come vorrebbero etichettare anche Caligola, è “pazzo”, ma perché è così “ragionevole” da aver capito che al mondo “le cose, così come sono, non mi sembrano soddisfacenti”. 
Il percorso di “rinascita” che Giacomini e Metamorfosi propongono a Fabrizio si snoda attraverso incontri-scontri significativi che inizialmente lui accoglie con reticenza, come quello con Iole Calvigioni e il suo Rebirthing Transpersonale, il fare da spalla al clown di strada Fabio “Matisse” Corallini, la seduta con lo psicologo Massimo Soldati e, infine, la Aum Meditation e l'urlo liberatorio di Jacopo e dei compagni di terapia che gridano forte e a più riprese – si capisce facilmente leggendo il labiale poiché la voce è coperta dalla musica intensa – la parola basta. Basta: il verbum di chi, al culmine della sofferenza non ce la fa più. Un urlo munchiano che ricalca quello straziante che già si sente nei primi minuti di girato, quando Jacopo spinge Corona a sfogarsi ma che non è più lo strazio del folle col disturbo di personalità di cluster B, ma quello di chi ha iniziato il percorso per ricomporre la dicotomia del suo Io, cominciando a lasciarsi amare per quello che è: “Noi andiamo benissimo come siamo, siamo dei miracoli che camminano”, dice la Calvigioni, mettendo sostanzialmente fine alla continua ricerca di Corona che, per sua stessa ammissione, non fa altro che “tentare di cancellare l'idea che sono sbagliato”. 
“Siamo miracoli che camminano”, nessuno è sbagliato. Non ci sono Gesù o Barabba in questa storia ma semplicemente persone, uomini, che sperimentano più spesso di quanto vorrebbero l'esperienza atroce del dolore, ma che, in fondo, capiscono, come Fabrizio in chiusura della brevissima conferenza stampa che ha seguito la proiezione di “Metamorfosi”, e come molti altri tra noi, che tutto questo strazio d'animo era funzionale a farci capire che l'unica possibilità che abbiamo per rinascere è quella dell'abbraccio di chi ci ama esattamente così come siamo. Per Fabrizio queste persone sono il figlio Carlos, la mamma Gabriella, i fratelli e tutti quelli che ieri hanno riempito con rispetto la sala e con altrettanto decoro si sono alla fine alzati per salutarlo e abbracciarlo, commossi. Per me, per noi, ci sarà qualcun altro, ma ci siamo innanzitutto noi stessi: certo non perfetti, sicuramente pieni dei lividi della vita ma forniti per natura di tutto ciò che ci serve per arrivare, non certo alla completa contentezza, ma almeno a quel gogoliano sorriso tra le lacrime, che riempie di tenerezza la nostra im-perfetta natura umana.